Non è azzardato sostenere che si tratti di una partita epocale.
Si gioca sul campo dell’informazione online. È la battaglia mondiale ai fake, o se preferite quella nazionale alle bufale: ovunque nel globo internettiano stanno per scendere in campo i tutori della verità. Che non sempre corrispondono con quelli della democrazia.
In Germania il governo della Merkel valuta l’introduzione di una legge che imponga a Facebook la rimozione immediata delle notizie false con multe fino a 500 mila euro. Zuckerberg, dal canto suo, ha già fatto sapere che uno staff esterno contrassegnerà presto le notizie potenzialmente false pubblicate su Fb. Tutto questo dopo che negli Usa l’elezione di Donald Trump è arrivata – secondo i suoi oppositori – sull’onda dei fake fatti circolare ad arte in rete. E dopo che Matteo Renzi, all’indomani del ko al referendum costituzionale, ha indicato come causa principale della sconfitta “il mancato presidio del web, l’aver lasciato il campo libero ai diffusori di falsità”. Da un altro punto di vista si potrebbe dire che il primo (il neopresidente Usa) ha certamente cavalcato a suo vantaggio i social, mentre il secondo ci ha provato ma ha ottenuto l’effetto contrario. Due facce della stessa medaglia. Ma poi non era stato proprio Renzi in altri tempi a consigliare ai risparmiatori di credere e investire in Mps? Non si è poi rivelato un fake anche quello? (E comunque i risparmiatori i soldi ce li metteranno lo stesso, ma per pagare il salvataggio di stato della banca più antica del mondo, sfibrata dalla cura Pd).
La battaglia della democrazia si sta sviluppando indubbiamente attorno al tema dell’informazione online e più in generale della libertà di espressione. E come si può evincere, si tratta di una questione molto complessa e delicata. Il fatto stesso che i centri di potere della politica intendano stabilire nuove limitazioni a un fenomeno che ha come principale caratteristica l’essere “world wide web”, senza confini, è significativo. Comunque sempre a nome della presunta “democrazia”. Che però sembra perdere significato, caso mai sconfina in nuovi linguaggi, finendo vittima essa stessa di quei nuovi linguaggi, o metalinguaggi.
L’ultimo esempio fa riferimento ai cosiddetti “populismi”. I populismi fanno riferimento a correnti di pensiero generalmente insofferenti alle autorità costituite, alla politica tradizionale. Ma anche qui ci sarebbe da distinguere. Queste definizioni rispondono allo storytelling istituzionale medesimo, perché da un’altra prospettiva i “populismi” potrebbero non essere altro che manifestazioni di consapevolezza dalla base. Un altro esempio recente ha spesso riguardato i “buonismi”, altra etichetta double face.
Se questa è l’era della post-truth, la post-verità, e della misinformation, delle notizie false distribuite ad arte, è anche certo che l’istituzione di un Ministero della Verità non sarebbe auspicabile, come sostiene lo studioso Walter Quattrociocchi, coordinatore del CssLab dell’Imt di Lucca. E tanto meno di un tribunale popolare dei giornali, come paventato di recente da Beppe Grillo.
Le post-verità e la misinformation vanno di pari passo con un altro fenomeno, quello della polarization. Mai come in questo periodo, con sempre maggiore evidenza, ci si divide regolarmente su ogni tematica che riguardi i vari aspetti della vita. Dal tifo alla politica, questo non solo questo accade quando si debba esprimere il voto per un referendum: si ripete ogni volta – con il palcoscenico dei social network a fare da grancassa – che sia richiesta una scelta di campo: essere a favore di o contro una teoria, un’idea, una visione.
Gli studiosi notano che un individuo, nell’esprimere un’opinione sui social, tende a condividere con maggiore immediatezza le idee più simili alle proprie, trovando così un pronto conforto, piuttosto che cercare il contradittorio. Accettando anche una buona dose di preconcetti o di opinioni non verificate. È un risultato, dicono, della tecnologia diffusa che ha favorito in breve tempo la fruizione disintermediata delle informazioni. In questo contesto poi, si inserirebbe il pericolo degli algoritmi usati per la promozione dei contenuti, con la possibilità di raggiungere utenti su misura. Tutto questo determina la condizionabilità di cui soffriamo in generale noi, naviganti del web.
E se non fosse così? Se aldilà dei gattini e dei like, della polarizzazione che impone scelte di campo affrettate e superficiali, la dimensione social e, più in senso lato, la grande crescita tecnologica diffusa, non rappresentassero altro che una grande, immensa occasione per l’intera umanità?
Se – viceversa – la tendenza a dipingere di populismo la semplice presa di coscienza di una realtà da cambiare, fosse la manifestazione più estrema del vecchio potere, di chi non vuol cedere il passo a una nuova sensibilità diffusa, a una consapevolezza condivisa?
Resta un sapore amaro, suggerito da chi raccontando la polarization e le post-truth, ci convince che in rete arrivare a discernere ciò che è vero da ciò che non lo è, risulti in definitiva impossibile.
Chissà perché tornano ora in mente certi fotogrammi di film visti tanti anni fa e però ancora impressi nella memoria, dove si racconta di mondi impossibili e, al tempo stesso, plausibili. Film come “Essi vivono” di John Carpenter o come il più recente “Matrix” dei fratelli Wachowski. Film che sembravano b-movie, esercizi di fantascienza a bon prezzo e che però contenevano messaggi da rivalutare a distanza di tanto tempo. Storie di realtà svelate.
LUCA BORIONI
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